L’olio di palma fa male?
Ciclicamente esaltato o demonizzato, l’olio di palma è l’olio vegetale più utilizzato al mondo: nel 2014 l’olio di palma e l’olio di palmisto hanno infatti rappresentato 60 dei 173 milioni di tonnellate di oli vegetali prodotti a livello mondiale.
Come suggerisce lo stesso nome, questo olio deriva dal frutto della palma da olio (Elaeis guineensis e Elaeis Oleifera), una pianta originaria dell’Africa occidentale e diffusa nella fascia equatoriale di cui si hanno evidenze fin dai tempi dell’antico Egitto. Questa palma si coltiva in 17 Paesi della fascia equatoriale, due dei quali, Malesia ed Indonesia, da soli rappresentano circa l’86% della produzione mondiale e fornisce sussistenza economica a diversi milioni di persone.
L’olio si ricava dai frutti della palma che vengono sterilizzati tramite vapore, denocciolati, cotti, pressati e filtrati. Il processo estrattivo è effettuato senza l’uso di solventi. E’ anche possibile ricavare una seconda porzione grassa dalla spremitura dell’endosperma e dell’embrione racchiusi nell’endocarpo, ottenendo il cosiddetto “olio di palmisto o di palmisti”.
Perché negli ultimi anni ne abbiamo sentito parlare moltissimo? Semplice: se da sempre è stato utilizzato come grasso di cottura in tutta la fascia tropicale dell’Africa e del Sud-Est asiatico, negli ultimi decenni è cresciuto enormemente il suo impiego nell’industria alimentare, grazie al costo moderato e all’elevata stabilità ossidativa del prodotto raffinato.
Questo olio è particolarmente adatto alla preparazione dei dolci: in pratica sostituisce il burro, di cui condivide alcune proprietà nutrizionali come la presenza di grassi.
L’olio di palma ha quasi il 50% di acidi saturi: proprio in merito all’elevata percentuale di grassi saturi, assieme all’olio di cocco, l’olio di palma e quello di palmisti sono tra i pochi grassi di origine vegetale solidi a temperatura ambiente.
Ma è proprio questa stessa elevata percentuale di grassi saturi che ne ha creato la recente cattiva reputazione. I grassi saturi, a partire dagli anni Cinquanta, sono infatti stati demonizzati a causa dell’avanzare della cosiddetta “ipotesi lipidica”. Nello specifico, il ricercatore Ancel Keys mise in relazione i grassi saturi con problemi cardiocircolatori e nonostante studi successivi smentissero questa posizione, l’opinione comune è rimasta ferma alla prima convinzione.
Dalla letteratura attualmente pubblicata emerge come la sostituzione di questa tipologia di olio con altri acidi grassi potrebbe avere sia effetti positivi che negativi su alcuni marcatori di rischio cardiovascolare, quali le concentrazioni sieriche di colesterolo totale, LDL, HDL, Trigliceridi, Apolipoproteine ed Omocisteina: nessuna risposta definitiva, insomma.
Di fronte alla confusione e alla contraddittorietà delle informazioni che sono circolate negli ultimi anni, il consumatore si è sentito disorientato ed anche molte aziende sono corse ai ripari riempiendo pubblicità e confezioni di slogan con la dicitura “Senza olio di palma”.
Ad aumentare i dubbi anche uno studio pubblicato nel 2016 dall’EFSA che ha segnalato che a temperature superiori ai 200 °C l’olio di palma, e gli oli vegetali in generale, sviluppano sostanze (2 e 3-3- e 2-monocloropropanediolo, MCPD, e relativi acidi grassi) che, ad alte concentrazioni, sono genotossiche, ovvero possono mutare il patrimonio genetico delle cellule.
Bisogna sottolineare però che l’EFSA non ha mai chiesto il bando dell’olio di palma perché è difficile che concentrazioni pericolose siano raggiunte con la normale alimentazione ed inoltre nel gennaio del 2018 ha pubblicato un aggiornamento della sua valutazione del 3-MCPD, innalzandone la soglia tollerabile da 0,8 microgrammi per chilo al giorno a 2 microgrammi per chilo al giorno.
In soldoni, per un adulto con una dieta bilanciata è di fatto impossibile superare la dose massima giornaliera, a meno che non si faccia un uso smodato di prodotti a base di olio di palma.
Ha poco senso sostenere quindi che questo grasso vegetale rappresenti un rischio per la nostra salute. Va comunque ricordato che, in quanto grasso saturo, all’interno di una dieta equilibrata l’olio di palma andrebbe assunto in quantità molto modeste, pari al massimo al 10% dell’apporto calorico totale.
Nessun alimento di per sé è buono o cattivo e l’olio di palma non fa eccezione. L’olio di palma non è il grasso più salubre che esista, ma nemmeno il peggiore: prima di bandirlo bisogna verificare con che cosa lo si sostituirebbe.
Soprattutto bisogna considerare l’impatto sull’ambiente e la sostenibilità di questa coltura, confrontata con la sostenibilità delle colture alternative.
Secondo l’ultimo report dell’International Union for the Conservation of Nature (Iucn), la distruzione della foresta pluviale per ricavare spazio per le piantagioni di olio di palma minaccia più di 190 specie in Indonesia e Malesia, ma pensare di sostituirle con coltivazioni di soia, mais e colza per ricavare altri tipi di oli vegetali provocherebbe un consumo di suolo 9 volte superiore, con conseguente distruzione di habitat in altre regioni del pianeta.
Senza contare che alcune comunità del sud del mondo stanno traendo vantaggio dall’indotto dell’olio di palma e l’alterazione degli equilibri della domanda e dell’offerta potrebbe avere grosse conseguenze economiche.